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Per Aspera Ad Veritatem n.26
Terrorismo, fondamentalismo e dialogo interreligioso.

Intervista a Franco CARDINI


D. Il diciannove maggio scorso, nel corso dell’incontro tenutosi a Jerez de la Frontera, il Ministro dell’Interno Pisanu ha proposto ai colleghi dell’Unione Europea un’iniziativa per promuovere il dialogo interreligioso, uno dei possibili percorsi per trovare risposte a medio-lungo termine contro il terrorismo fondamentalista. Un Convegno sul tema, che dovrebbe svolgersi nel corso del semestre di presidenza italiana, avrebbe anche il significato di affermare un ruolo non neutrale dello Stato. Ci piacerebbe iniziare questa conversazione, Prof. Cardini, con una Sua riflessione sull’argomento. In particolare, per quanto emerge dalle sue conoscenze e dai suoi studi circa le questioni che tale iniziativa è destinata a sollevare, potrebbe descriverci le coordinate per una lettura dei rapporti tra le religioni, nello sfondo del fenomeno del fondamentalismo?

R. Sono convinto che le iniziative di dialogo, di per sé, siano sempre positive. Si possono sollevare dubbi sulle loro modalità di realizzazione, oppure sulla loro validità nel tempo, ma è fuori discussione che la capacità di costruzione civile del dialogo è sempre importante. Non penso, sia chiaro, alla tolleranza come valore ideale, come concetto astratto. Il termine tolleranza è infatti un vocabolo piuttosto antipatico, include una sorta di riserva generale sulla cultura altrui, una specie di doverosità civile del lasciar esprimere gli altri. Nella parola tolleranza si sottende, a ben vedere, una concezione negativa e limitativa. In una società come la nostra, caratterizzata dalla cultura della globalizzazione e della mondializzazione - realtà che possono piacere o non piacere, ma pur sempre elementi della nostra vita concreta - il problema non è tollerare il vicino che la pensa in modo diverso, ma riuscire a capire pienamente le ragioni di tale differenza, analizzarle, lasciar entrare nella nostra cultura quanto di positivo e interessante si afferma nella cultura altrui. Tutto ciò dovrebbe realizzarsi senza la volontà di costruire modelli di pensiero unico, una sorta di generale melting pot. Al contrario, occorre essere consapevoli che le diversità sono sempre una ricchezza. Non è affatto vero che la differenza di per sé generi conflitto. Lo scontro, semmai, è spesso indotto dai malintesi, dalla cattiva conoscenza, se non addirittura dalla non-conoscenza. Il deficit di conoscenza genera antipatia, sospetto, e questo a sua volta può determinare senso di inferiorità o di superiorità, due pericoli uguali e contrari. La non-conoscenza può provocare pregiudizi, inimicizia, ed è profondamente errato ritenere che la mancanza di conoscenza generi indifferenza. Ciò accade solo fintanto che colui che non si conosce sta lontano. Sono dunque convinto che sia necessario rimuovere i pregiudizi, restando tranquillamente quello che siamo, e questo vale anche per coloro fra noi che si ritengono fondamentalisti. Dico questo con una certa volontà polemica, perché quando si discorre di fondamentalismo si pensa sempre al fondamentalismo musulmano. Ciò rappresenta un grave errore di prospettiva storica. Intanto vorrei osservare che il fondamentalismo è nato nel mondo cristiano protestante statunitense, se è vero che il vocabolo nasce proprio a seguito della conferenza dei cristiani fondamentalisti di Niagara Falls, tenutasi nel 1898. Successivamente, l’aggettivo fondamentalista ha trovato spazio crescente nell’ambito pubblicistico statunitense. D’altro canto, se è giusto adottare tale aggettivo per i cristiani che ritengono necessario ritornare ai fondamenti della Bibbia, il termine, riferito ai movimenti di natura radicale islamica, riveste un’accezione non completamente sovrapponibile. In altre parole, il fondamentalismo di cui oggi tutti parlano è quello musulmano, ma occorre riconoscere che esistono anche altri fondamentalismi, per esempio di tipo cristiano, persino emersi in tempi recenti, se pensiamo ad alcuni gruppi fondamentalisti cristiani vicini all’attuale Presidente degli Stati Uniti, come ormai comincia ad essere di pubblico dominio. Non dimentichiamo poi che esiste anche un fondamentalismo ebraico. L’assassino del Generale Rabin è scaturito da quegli ambienti, che personalmente ritengo pericolosissimi. Di solito non se ne parla, per un ulteriore malinteso. Per motivi storici che conosciamo, ma che, purtroppo, non mi paiono tout court accettabili, è accaduto e accade che qualsiasi tipo di critica anche costruttiva, ad Israele e al movimento sionista, venga immediatamente derubricata come antisemitismo. È un atteggiamento che bisogna combattere, altrimenti si rischia di cadere in forti fraintendimenti e in una visione non obiettiva della realtà. Ma lo scenario non è completo. Esiste, ad esempio, anche un fondamentalismo indù. Ci siamo tranquillamente dimenticati dei massacri di musulmani del Gujarat. Io credo che come si ricordano, giustamente, i massacri di cristiani ad opera dei musulmani nel meridione del Sudan, non si debbano dimenticare i massacri di musulmani nel Gujarat. Anche se i musulmani figurano sempre come massacratori o terroristi, in realtà spesso sono, a loro volta, oggetto e vittime di massacri o di forme di terrorismo. C’è infine, nel nostro Occidente, un fondamentalismo di tipo laico, che definirei come una vera e propria indisponibilità a giudicare la serietà delle ragioni religiose. Anch’esso è una forma di fondamentalismo, di fanatismo, perché rientra nel concetto di fondamentalismo la chiusura totale alle ragioni degli altri. Tornando all’importanza del dialogo, questo ha il compito prezioso di provare a isolare le forme di estremismo. Non è e non deve essere vissuto come fine a sé stesso, ma come leva capace di sottrarre forza, ridurre i margini di manovra – attualmente amplissimi – a tutti quei movimenti a carattere fondamentalista che basano il reclutamento sulla frustrazione, sull’odio, sull’inimicizia, ossia sulla non-conoscenza. D’altra parte, e concludo, è noto a tutti che le persone che si conoscono raramente finiscono con l’odiarsi: tutti i musulmani sono cattivi ad eccezione del musulmano della porta accanto! Ampliare il concetto del “musulmano della porta accanto” significherebbe automaticamente risolvere gran parte dei nostri problemi.

D. Da storico, vede l’attuale periodo come propizio al dialogo ovvero gli ostacoli sono troppo grandi per essere rimossi?

R. Può sembrare un paradosso, tuttavia ritengo che i momenti in cui il dialogo è difficile sono anche quelli in cui esso è maggiormente propizio e necessario. Nelle congiunture di pace –almeno apparente – o di limitata tensione, il dialogo può essere considerato quasi un lusso, un’opportunità della quale si può fare anche a meno. Quando invece la situazione diventa difficile, pericolosa, addirittura calda, se ne comprende l’essenzialità. C’è da tenere presente, naturalmente, una ragione di tipo fisico: maggiori sono le istanze di dialogo, più duro diventa il muro di coloro che non lo vogliono. Più si esercita forza nei confronti di un oggetto, maggiore è la resistenza che quell’oggetto oppone, secondo un principio simile a quello del “tuffo”. Se ci tuffiamo da due metri, la superficie dell’acqua ci accoglie abbastanza dolcemente; se ci tuffiamo da venti metri, l’impatto è invece tale che, se non si è esperti tuffatori, si rischiano seri danni.

D. Qualcuno potrebbe obiettare che non spetta alle Autorità politiche laiche promuovere il dialogo interreligioso. Inoltre, i fondamentalisti sono sicuramente una minoranza, quindi non è certa la reale efficacia di un simile messaggio di apertura e confronto. Se prendiamo il caso dei musulmani, solo una minima parte di quelli presenti in Italia risulta frequentare le moschee e, tra questi, una minoranza ancora più esigua esprime posizioni radicali. Come può il dialogo interreligioso avere un impatto sul fondamentalismo e sull’estremismo?

R. Tali obiezioni sono assolutamente giuste e sensate. Tuttavia, toccano solo una parte della verità, com’è spesso proprio di ogni obiezione. In linea di principio è di sicuro bizzarro che siano le società e le organizzazioni laiche ad occuparsi di certe questioni. Occorre però fare attenzione. La definizione di laicismo – o di laicità – e anche la definizione di governo, stanno cambiando molto rapidamente, insieme alla storia del mondo al quale eravamo abituati. Siamo in una fase di rapidissimi mutamenti. Sta cambiando il diritto internazionale, come dimostrano i gravi fatti che sono accaduti tra febbraio e marzo di quest’anno. Mi riferisco alla guerra, portata contro uno Stato sovrano, l’Iraq, senza una formale dichiarazione, senza un formale casus belli, contro il parere dell’ONU, l’organizzazione sovranazionale che raccoglie tutti gli Stati sovrani del mondo. Per meglio dire, tra i vari cambiamenti registro intanto la negazione della normativa internazionale vigente. Affermo questa convinzione non certo per criminalizzare l’operato degli Stati Uniti – o meglio, dell’attuale Governo degli Stati Uniti – ma piuttosto per sottolineare l’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo, un contesto dal quale – storicamente parlando – ordinariamente nascono grandi rivoluzioni. Si può dare un parere positivo o negativo rispetto alle scelte della dirigenza statunitense attuale. Non si può, tuttavia, non riconoscere che una guerra come quella irachena, sino a qualche anno fa, sarebbe stata semplicemente impensabile. Spetta a tutti noi collocarci nella giusta prospettiva per analizzare i grandi mutamenti e l’eccezionalità della fase che stiamo vivendo, dal punto di vista politico, economico, tecnologico, ambientale, ecc… Bisogna abituarsi al mutamento rapido di certi parametri, per comprendere la realtà. Tornando al cuore del nostro ragionamento, fino a qualche anno fa un governo laico – proprio perché laico – poteva tranquillamente disinteressarsi alle tematiche religiose. Le religioni vivevano nella loro sfera, nel loro ambito – almeno apparentemente stabile, istituzionalmente ben definibile, in fondo statico più che dinamico – e gli Stati laici potevano serenamente legiferare senza alcuna preoccupazione di natura religiosa. Oggi non è più così, perché la religione sta diventando, o meglio nuovamente diventando, un grande fattore di mobilità politica, sociale e civile. Il Novecento si è aperto con gli scienziati riuniti in congresso a Berlino, che decretavano formalmente la cancellazione da parte della scienza del bisogno del divino – quale risultato dell’ignoranza, della paura e dell’arretramento – e con la prigionia del Papa in Vaticano. All’inizio del ventunesimo secolo si assiste alla rinascita, almeno apparente, di una quantità di culti, al ritorno del religioso nella società civile. Questo secolo si apre non a caso con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II, inginocchiato sulla porta della Basilica di San Pietro, che inaugura l’Anno Santo. Cito due passaggi simbolici per meglio esplicitare la mia visione: il Novecento, che inizia con lo spettacolo della piena laicizzazione del Papa, prigioniero nei suoi palazzi in Vaticano; il ventunesimo secolo, che si apre sul panorama delle religioni che, addirittura, diventano forze rivoluzionarie.
L’attuale Pontefice è in senso assoluto la persona più presente sugli schermi televisivi e sui mass media di tutto il mondo. Ciò vuol dire che sono stati fatti passi rivoluzionari in una direzione assolutamente inattesa e imprevedibile fino a pochi anni fa. Se tutto questo è bene o male, non saprei dirlo, poiché ignoro cosa siano il bene e il male al di fuori della sfera della mia personale etica. Credo però che la storia non abbia una ragione né un senso ed è necessario comprendere quello che succede confrontandolo continuamente con la complessità dell’esistenza. Non si può dire se una cosa che accade è buona o è cattiva, se va nel senso del progresso o nel senso del regresso. Occorre imparare a navigare a vista, in un mare in cui abbiamo perduto alcuni fondamentali punti di orientamento. Questa è la nostra condizione esistenziale attuale.

D. A partire dal XIII secolo, quando la polemica contro gli Averroisti da parte di S.Tommaso solleva in modo forte la problematica del libero arbitrio, si apre, in un certo senso, il divario fra Cristianesimo ed Islam. Nella religione dei musulmani, la volontà di Dio annulla infatti completamente il libero arbitrio dei fedeli.
Questa visione ha un peso probabilmente decisivo anche sulla missione prettamente politica che molti dei governi islamici ritengono coessenziale allo svolgersi delle relazioni della religione con lo Stato. Secondo il Suo punto di vista, esiste la possibilità di una visione islamica che rinunci all’immagine prettamente religiosa della politica e della società?


R. Intanto sul libero arbitrio sarei molto prudente. La maggior parte delle conquiste storiche dell’Europa e dell’Occidente, a partire dal Cinquecento – quindi tre secoli dopo la polemica di S. Tommaso – sono state realizzate da Paesi e da uomini che personalmente avevano rifiutato l’idea del libero arbitrio. La riforma protestante nasce, ad esempio, proprio sulla base del rifiuto luterano del libero arbitrio e dell’idea che, in qualche modo, l’uomo possa esercitare una piena libertà sulle sue scelte storiche. I calvinisti inglesi del Seicento sono stati artefici della rivoluzione puritana e, quindi, indirettamente fondato la stessa weltenschauung su cui si reggono, con l’opera dei Padri Pellegrini, gli Stati Uniti d’America. I calvinisti svizzeri hanno fondato la modernità, sotto il profilo bancario e finanziario. I calvinisti olandesi hanno portato avanti un processo analogo attraverso la conquista degli oceani, il trasferimento delle merci, lo scambio ineguale, tutte quelle cose che sono poi alla base della moderna globalizzazione.
Tutti i popoli che ho citato, popoli di punta per la modernità, si distinguevano per la loro fede, non solo riformata – quindi negante il libero arbitrio – ma addirittura vissuta nella versione più rigida, quella calvinista. È dunque evidente che non è il libero arbitrio ad aver determinato la modernità – anzi, si potrebbe sostenere l’esatto contrario – in quanto è proprio il rifiuto della dottrina cattolica del libero arbitrio, da parte di una componente consistente del mondo cristiano, che ha determinato l’attivismo caratteristico della modernità. Un ragionamento su questo tema dovrebbe comunque andare oltre le ragioni filosofiche. Ritengo vadano sottolineate anche quelle politiche, che esistono e sono molto precise, poiché l’Islam ha alle sue spalle un’avventura contraddittoria nel rapporto con l’Occidente. I popoli islamici costituiscono una buona parte dell’attuale umanità, sono presenti in un’area che va dal Maghreb fino all’Indonesia, dal Caucaso fino al Corno d’Africa. Esiste oggi una diaspora musulmana che comprende tutto il mondo, in quanto i musulmani sono stati coinvolti per ultimi nel processo di colonizzazione da parte degli occidentali. Fra il settecento e il novecento essi hanno subìto una forte attrazione verso il mondo occidentale, sono stati molto interessati alla potenza militare e tecnologica dell’Occidente. Al contempo, sono tuttavia rimasti profondamente convinti che la loro cultura, dal punto di vista spirituale, religioso – ma anche artistico, letterario, estetico – fosse infinitamente superiore a quella occidentale. L’intento era semplicemente quello di cercare di capire il segreto della potenza occidentale. Nel rivolgersi all’Islam ci si dimentica spesso di analizzare le questioni con la necessaria profondità. Tutti sono attratti dal sottolineare la confusione tra religione e politica, impegnati a cogliere gli aspetti inquietanti della rilevanza delle ragioni religiose e delle aspirazioni teocratiche sulla politica. L’Islam è invece una religione che favorisce profondamente la real politik, la politica di potere e la politica di forza. È proprio per questo che il mondo musulmano è rimasto affascinato dall’occidente e, allo stesso tempo, anche profondamente deluso da esso. Si aspettava che la cultura e la tecnologia occidentali lo avrebbero riportato (l’Islam) al ruolo di civiltà-guida che ha avuto per molti secoli, tra Medioevo ed età moderna, invece tutto ciò non si è realizzato. I musulmani si sono resi conto che il mondo occidentale li ha usati per i suoi fini – ultimo in ordine di tempo quello dell’energia petrolifera – e questo ha generato un contraccolpo, una caduta delle illusioni, ha provocato il nascere di frustrazioni, di rancori, che sono evidentemente alla base dello sviluppo dei movimenti fondamentalisti.

D. D’altro canto, esiste un’interpretazione convincente che vede le ideologie radicali islamiche come vere e proprie ideologie politiche che avrebbero, in qualche modo, preso il posto della dottrina panaraba dopo la morte di Nasser. Il fattore religioso sarebbe divenuto l’unico elemento ”ideologico” aggregante, in grado di sostituirsi al sogno politico infranto dell’unità araba. Pensa che questa chiave di lettura possa inserirsi compiutamente nel quadro che stiamo delineando?

R. Almeno per il mondo arabo, il processo descritto è assolutamente veritiero. È bene ritornare sulla constatazione, tuttavia, di come l’Islam sia passato, nel confronto con l’occidente, attraverso una serie di delusioni, almeno per quanto riguarda la sua classe dirigente. Tra la fine del Settecento e l’Ottocento si è avuta una larga apertura all’occidente liberale. È stata accettata, per esempio, la visione proposta da Napoleone di un occidente democratico, laico, liberato dalla soggezione al Cristianesimo. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere accettato e seguito anche dall’Islam. Tale visione, propria della propaganda del Generale Bonaparte al momento del suo arrivo in Egitto nel 1798 – percepita come arrivo dell’occidente liberale e liberatore – attecchì moltissimo in buona parte del mondo arabo, fino al punto di determinare l’accettazione della guerra al fianco dell’Inghilterra e della Francia contro la Turchia, considerata potenza che opprimeva gli arabi. Per avere un’idea della Turchia come potenza oppressiva è stato però necessario che il mondo musulmano producesse, al suo interno, una sorta di rivoluzione, caratterizzata dall’introduzione di concetti nuovi per quella cultura, come quello di patria, di nazione, di stato-nazione indipendente, e così via. Tutto ciò è realmente accaduto e deve essere considerato come un momento rivoluzionario occidentalista fortissimo, provocato proprio dalla propaganda occidentale – soprattutto francese e inglese – che aveva lo scopo di far ribellare gli arabi ai turchi, nel corso della Prima Guerra mondiale, col miraggio di un’unione araba difesa ed accettata dagli occidentali liberali. Conseguenza che, in verità, non si è mai realizzata. Nel frattempo, si imponeva la realtà dei coloni sionisti, che gli occidentali hanno in qualche modo appoggiato – anche se entro certi limiti – contro il mondo arabo. Da qui la delusione del mondo arabo, e non solo di questo. I nazionalismi turco ed iraniano, per esempio, in un primo tempo sono stati molto attratti dalla visione del mondo delle potenze democratiche liberali occidentali. Ad un certo momento, però, si sono sentiti delusi ed anche traditi, ragione per la quale si sono rivolti ai modelli fascisti. Dopo la Seconda Guerra mondiale, hanno poi guardato all’Unione Sovietica. Ecco che, tornando alla domanda, si vede meglio il contesto nel quale può collocarsi la delusione del movimento panarabo di poter costruire una nazione unitaria su modelli europei ed occidentali, passati in parte anche attraverso l’esperienza fascista e comunista – poiché il nasserismo è una realtà complessa – e il relativo fallimento di questo progetto. Ai propagandisti fondamentalisti si è presentata una buona occasione per portare avanti la tesi, anche se con caratterizzazioni diverse, perché i movimenti fondamentalisti sono molto numerosi, che si riassume nell’assioma “occidente uguale inganno e corruzione”. L’occidente ha sempre prima illuso e poi deluso. Se l’Islam vuol tornare ad assumere il grande ruolo che aveva in passato deve trovare le forze all’interno di sé stesso e all’interno delle sue pure radici. L’evolversi di questo pensiero può comportare, dal nostro punto di vista, l’errore di considerare i movimenti fondamentalisti come movimenti passatisti, atavisti, che pensano soltanto all’antico splendore dell’Islam e che vorrebbero restaurarlo, magari con la violenza. Siamo, invece, dinanzi a movimenti molto moderni che utilizzano un linguaggio religioso, ma a fini politici ben precisi. Ci confrontiamo con una grande deriva politica dell’Islam che è necessario capire, altrimenti si cade nell’errore di considerare i fondamentalisti solo quali gruppi reazionari. Esiste, è chiaro, una demagogia adatta ad alcuni ambienti più poveri e arretrati del mondo musulmano, ambienti dai quali i propagandisti fondamentalisti vogliono attingere una manodopera – anche terrorista – per fini politici che sono però assolutamente moderni ed attuali, come, ad esempio, quello di scompaginare l’ordine costituito in alcuni Paesi musulmani. Quei Paesi musulmani che noi, con il nostro buffo linguaggio, definiamo moderati perché stanno dalla nostra parte. Consideriamo, invece, fondamentalista tutto quello che dalla nostra parte non sta. Che gli arabi sauditi o che l’attuale governo pachistano siano un Islam moderato è molto discutibile. Trovo che forze come quelle espresse dalla parte progressista iraniana – riconducibili a Khatami – siano di gran lunga più moderate di quelle della maggior parte dei nostri alleati musulmani. È un nostro limite considerare automaticamente democratico un Paese che si allea con noi, anche se questo non ci pensa neppure lontanamente alla democrazia.

D. Quali interlocutori vede nel mondo religioso e politico propensi ad un ruolo di mediazione? Khatami lo abbiamo già considerato, si potrebbe pensare a Mubarak.

R. Credo vi siano interlocutori di vario genere, che però non dobbiamo andare a cercare basandoci, è il senso del mio discorso di poco fa, su categorizzazioni troppo occidento-centriche. Non si tratta, credo, di andare a vedere chi sono gli interlocutori più democratici, o più moderni, o più occidentalizzanti. Si tratta di individuare, nel mondo musulmano, quali sono le forze più interessate al dialogo con quello che noi chiamiamo genericamente il mondo occidentale.

D. È importante considerare con attenzione anche il ruolo della Chiesa cattolica. Ad esempio, è significativa la posizione del Papa prima e durante la guerra in Iraq. Una delle chiavi di lettura è stata la percepita necessità, da parte della Chiesa, di non sposare una tesi che potesse essere interpretata come adesione ad un conflitto di natura religiosa.

R. La posizione del Papa ha avuto a mio avviso fondamentalmente due obiettivi. Il primo, impedire una guerra che avrebbe portato ancora più sofferenza ad un popolo, come quello iracheno, già molto provato dal conflitto con l’Iran, da anni di embargo e, naturalmente, dagli anni di dittatura di Saddam Hussein. In seconda battuta, il Papa si è preoccupato che un assalto occidentale a un Paese musulmano potesse essere visto, letto e interpretato dai gruppi fondamentalisti come un attacco a tutto l’Islam, anche se Saddam Hussein non può essere assolutamente ritenuto un rappresentante dell’Islam nel suo insieme. Il Raìs è considerato un musulmano piuttosto tiepido e spesso si parla di lui come di un ateo, di un uomo senza sensibilità religiosa. Tuttavia, questo suo essere laico ed ateo ha consentito all’Islam di avere un’esperienza politica nell’Iraq saddamista che, seppure negativa da molti punti di vista, ha garantito innegabilmente in un regime, ufficialmente musulmano, la libertà religiosa, il rispetto delle confessioni diverse. Tutti i regimi che definiamo laici nel mondo musulmano sono caratterizzati da questo elemento di tolleranza religiosa anche se, naturalmente, ciò non significa che possano essere considerati regimi democratici, aperti alla libertà. Su tali parametri, il dialogo si dovrebbe aprire con la Siria, la Giordania, l’Egitto ed alcuni capi di Stato nordafricani, al momento molto interessati al colloquio con l’occidente, come la Tunisia e la Libia. Bisogna poi tener presente che il mondo musulmano può essere interessato a colloquiare non tanto con l’occidente in blocco, espressione con cui ci sembra di qualificare chissà quale realtà concreta, entità invero fumosa e discutibile, ma solo con alcuni Paesi. Molti paesi arabi e musulmani sono per esempio attratti verso un dialogo con l’Europa piuttosto che con gli Stati Uniti.

D. La guerra in Iraq, insomma, come fattore di cambiamento di molti equilibri e occasione di interpretare le tendenze nel grande paese nordamericano.

R. Quelli che, a torto o a ragione, sostenevano che la guerra americana contro l’Iraq fosse anche una guerra contro l’Europa avevano almeno al loro attivo un argomento che non si può dimenticare, cioè che l’Iraq è un grande produttore di petrolio ed è uno dei paesi chiave della produzione petrolifera di quell’area che noi chiamiamo l’area del Golfo. L’Iraq ha poi una situazione geografica che determina un collegamento con altre aree estrattive, come quella del Mar Caspio e dell’Asia centrale. Non si deve dimenticare, allora, che l’Europa come la Cina dipendono per l’80% delle importazioni petrolifere dal Golfo, mentre gli Stati Uniti dipendono soltanto per il 12%. È ragionevole pensare, insomma, che una guerra statunitense in un territorio di questo genere – come dice l’Onorevole Andreotti, a pensar male si va all’inferno, però spesso ci si indovina – vitale per l’Europa e la Cina e non per gli Stati Uniti, sia indirettamente anche un episodio di guerra non certo militare ma economica, finanziaria e industriale anche nei confronti dell’Europa e della Cina. Il discorso è reciproco. Molti paesi musulmani e arabi sono interessati al rapporto con l’Europa, soprattutto dopo le posizioni che alcune nazioni del vecchio continente hanno preso nei confronti della guerra all’Iraq, iniziativa che trovava tutto il mondo musulmano – sia pure per ragioni differenti – sulle negative. Questi Paesi sono molto più interessati, come ricordavo poco fa, al rapporto con l’Europa che non al rapporto con gli Stati Uniti. È evidente che una situazione di questo genere non può essere accettata tranquillamente. In altri termini, è chiaro che gli Stati Uniti si muovono anche perchè le prospettive di un possibile isolamento stanno in rapporto diretto con la forza con la quale hanno portato avanti una politica di tipo unilateralista. Gli Stati Uniti hanno la preoccupazione di poter venire isolati, temono che i Paesi europei, alcuni Paesi asiatici come l’Iran, l’India o la Cina finiscano col favorire un rapporto con l’Europa piuttosto che con loro. La superpotenza non ha superato tali problematiche, perché è una superpotenza dal punto di vista militare, senza dubbio, ma ha una situazione interna, economica e finanziaria, molto delicata. A me sembra che i teorici e i politologi americani si stiano preoccupando molto. Alludo, ad esempio, alle posizioni di Kissinger e di Nye. Gli Stati Uniti sanno di dover sfruttare la loro situazione di assoluta superiorità sotto il profilo militare, ma sono anche consapevoli che questa situazione non ha una tranquillizzante corrispondenza nel mondo economico, produttivo, industriale ed anche politico e religioso. Da questo punto di vista direi anzi che le ultime mosse degli Stati Uniti non sono il sintomo di una coscienza di forza. Non condivido, come è stato detto da qualcuno, che gli Stati Uniti agiscano così perché hanno l’impressione di poter fare quello che vogliono, di poter essere al di là del bene e del male, perché hanno dalla loro la forza. Io direi invece, insieme ad un osservatore attento come Emmanuel Todd, francese di cultura americana che ha previsto con venti anni di anticipo il crollo dell’Unione Sovietica, che il problema fondamentale sono gli elementi di debolezza. Nel suo ultimo libro, tradotto in italiano con il titolo Dopo l’Impero, egli esprime la convinzione che l’attuale dirigenza statunitense sia preoccupata per i suoi elementi di debolezza, non stia affatto agendo con la disinvoltura di chi si sente fortissimo, ma piuttosto con la preoccupazione di chi è cosciente della propria debolezza. Se questa analisi è realistica e fondata, ne viene di conseguenza che le scelte del mondo, non solo arabo ma più in generale musulmano, sono molto importanti se dirette al rapporto con gli Stati Uniti ovvero verso l’Europa. Ecco la ragionevolezza delle preoccupazioni statunitensi. Un dialogo che privilegiasse il rapporto Europa–mondo musulmano sarebbe per gli Stati Uniti politicamente ed economicamente molto grave. C’è da aspettarsi dunque che l’establishment statunitense ostacoli una tendenza di questo genere. All’interno dell’Unione Europea, non c’è da meravigliarsi che vi siano Paesi che puntano ad una maggiore distanza con gli Stati Uniti e che quindi premono per una politica indipendente europea nei confronti del mondo musulmano e Paesi invece, come l’Italia, che sembrano indirizzati verso una posizione che, d’accordo con Inghilterra, Spagna, Turchia, Polonia ed altri, tende a immaginare i rapporti con il mondo islamico attraverso una logica che passa dagli Stati Uniti, che coinvolge gli Stati Uniti, che non può comunque andare in una direzione non dico opposta, ma nemmeno troppo divergente, rispetto a quello che sono gli interessi degli Stati Uniti. Si tratta evidentemente di scegliere, perché non siamo nella prospettiva dello scoppio di un’altra guerra, ma siamo nell’ambito di scelte di politica internazionale che l’Europa non ha ancora fatto con chiarezza e che naturalmente dovrebbe fare, perché dalle scelte dell’Europa potrebbero poi dipendere le mosse delle altre componenti dell’equilibrio mondiale, a cominciare proprio dai Paesi musulmani.

D. Dopo l’11 settembre, gli scaffali delle librerie sono stati invasi da volumi sull’Islam, di vario genere. C’è un’esigenza di conoscenza, che passa attraverso studi più qualificati ed altri più improvvisati. Sembra che gli studiosi occidentali abbiano comunque prevalente la visione dell’Islam come un pericolo. Registro da parte Sua una visione molto più aperta su questo punto. Cosa pensa, in generale, del lavoro scientifico degli studiosi dell’Islam? Lo storico, lo scienziato, può avere un ruolo per avvicinare queste due culture che sembrano così lontane in questo momento?

R. Direi di sì. Dopo l’undici settembre più che le librerie mi hanno colpito gli schermi televisivi, perché sugli schermi televisivi ho constatato un proliferare di notizie e servizi sull’Islam cui non ha corrisposto un netto miglioramento della qualità. Per quanto riguarda il lavoro editoriale, devo osservare invece che anche in un Paese come l’Italia, dove si legge relativamente poco e si è tuttavia consci della situazione un po’ provinciale della nostra cultura, c’è stato un forte sviluppo e un forte impegno, soprattutto da parte di piccole case editrici, nel far circolare libri che invece sono molto importanti per capire l’attuale situazione. È interessante questo fenomeno delle piccole case editrici. Evidentemente le grandi case editrici sono dominate da gruppi finanziari che hanno anche rapporti con la politica, poco interessati che l’opinione pubblica italiana si muova su direttrici di conoscenza che potrebbero modificare la visione grossolana dell’Islam come pericolo. Non so perché i libri di Chomsky o di Gilles Kepel, come quelli di Emmanuel Todd, vengano pubblicati in Italia dall’Editore Tropea, contro il quale non ho davvero nulla, ma non si può dire sia un grande editore. Come mai un libro di Emmanuel Todd non viene preso in carico da Rizzoli o da Mondadori, mentre Rizzoli e Mondadori privilegiano Oriana Fallaci o cose di questo genere? Evidentemente perché il libro di Todd, che analizza gli elementi di debolezza della compagine statunitense, disturba in qualche modo l’establishment politico italiano che ha invece una posizione che in un modo o nell’altro – sia nel centro-destra che nel centro-sinistra – è piuttosto favorevole al mantenimento di buoni rapporti. Questa posizione è giusta e condivisibile, ma denota una certa soggezione nei confronti degli Stati Uniti d’America. La scelta è legittima, però nel mondo europeo è contrastata da altre scelte altrettanto legittime. Vedo, in altre parole, una vivacità editoriale che non corrisponde alle linee politiche delle forze che contano nel Paese, ma che evidentemente corrisponde alle necessità obiettive che l’opinione pubblica italiana comincia ad avere. L’opinione pubblica italiana, sia pure quella qualificata, che spende migliaia di euro all’anno per comprarsi dei libri, ha bisogno di saperne di più. Io direi che autori attenti, soprattutto qualificati politicamente e culturalmente, restii a giudizi scontati e conformisti nei confronti della realtà, anche musulmana, ne abbiamo molti. Cito soltanto due casi, perché sono molto diversi tra loro, anche per posizione politica. Il caso di Bernard Lewis, grande islamista, ebreo, impegnato – specialmente negli ultimi mesi – a sostenere la politica non di Israele, ma dell’Israele di Sharon, che dice cose anche molto dure, sempre culturalmente fondate, sul mondo musulmano. Sottolinea in particolare questo disagio del mondo musulmano ad accettare la modernità, contesta la tesi – io sarei un pochino meno sicuro di lui – secondo cui le diffidenze dell’Islam nei confronti dell’Occidente nascerebbero dal fatto che l’Occidente si è comportato in un modo non sempre corretto nei confronti del mondo islamico. Bernard Lewis invece sottolinea che è l’Islam ad aver sviluppato una sua tendenza a sentirsi vittima, una sua inclinazione alla frustazione, perché non è riuscito a capire quali siano state le ragioni storiche effettive del suo ritardo all’ingresso nella modernità. Per quanto riguarda le possibilità di uno sviluppo democratico dei Paesi musulmani, Lewis è arrivato a conclusioni tutto sommato abbastanza positive, sottolineando come evidentemente la democrazia è una realtà che noi stessi occidentali stiamo trasformando profondamente. Credo che sia un dato obiettivo constatare che noi occidentali ci stiamo disamorando a certi meccanismi democratici, arrivando a situazioni istituzionali che sono da molti punti di vista piuttosto di tipo oligarchico. Stiamo vivendo in un mondo che per abbreviazione potrebbe definirsi post-democratico. Considerato che stiamo affrontando lo sviluppo della democrazia in questi termini, come si può onestamente chiedere agli iracheni di accettare un sistema democratico all’occidentale a scatola chiusa, adottando magari modelli di democrazia che in Europa andavano bene fino agli anni settanta, e non più ora? Bisogna accettare una dinamica interna anche ai sistemi democratici e quindi tale ragionamento, peraltro molto banale, azzera la possibilità di pretendere che il mondo musulmano arrivi ad accettare modelli democratici imposti dall’esterno. Quali modelli democratici dovrebbe accettare? Modelli democratici che noi stessi abbiamo abbandonato perché riteniamo desueti? Questa è una pretesa che non possiamo avere. Modelli democratici più moderni? I modelli democratici non sono il risultato di un decreto-legge, per cui arrivati ad un certo giorno si decide di non votare più in un modo ma di votare piuttosto in un altro. Le realtà democratiche maturano sulla base di presupposti che stanno nella struttura della società civile, nei modelli di partecipazione, nei rapporti di produzione. Per costruire la democrazia occidentale sono stati necessari tre secoli di evoluzione, sia in Inghilterra che in Francia, i due Paesi che hanno dato al mondo il modello di democrazia occidentale. Non ci si può aspettare che i musulmani accettino a scatola chiusa un modello che non corrisponde al loro effettivo sviluppo. Bisogna aspettare che la risposta sulla democrazia più consona al mondo islamico venga dall’interno di quel mondo e sarà una risposta portatrice di modifiche strutturali o istituzionali adatte a quel mondo, non alla nostra volontà, ai nostri gusti o a quello che noi riteniamo essere democratico. Questa è la concezione portata avanti da Lewis che, da islamista molto esperto, capisce questi problemi a fondo.
Ritengo, inoltre, molto interessanti anche le tesi di Gilles Kepel, lo studioso che meglio degli altri, a mio avviso, ha capito la situazione del fondamentalismo. In sintesi, il fondamentalismo è secondo Kepel una delle espressioni del mutamento all’interno delle società musulmane e del disagio che questo mutamento comporta. Il terrorismo non è affatto la prova che il mondo islamico si stia orientando nel senso del fondamentalismo ma, anzi, una prova del fatto che sostanziamente il fondamentalismo è stanco, entrato in una fase di crisi. Il terrorismo in fondo prova che il fondamentalismo ha perso la sua battaglia all’interno dell’egemonizzazione della società musulmana e che questa si sta largamente muovendo in una direzione che tende a espungere le forze fondamentaliste. Il pericolo di un Islam che diventa fondamentalista, secondo Kepel, è ormai superato. I movimenti fondamentalisti – dal FIS algerino sino ai gruppi pakistani – hanno dato il massimo di sé e delle proprie esperienze, superato il culmine delle proprie possibilità e sono ormai entrati in una fase di involuzione che, fra l’altro, vede questi movimenti in una situazione pesantemente minoritaria. È chiaro che sono ancora in grado di fare azioni, anche di tipo terroristico, molto eclatanti. Ciò non significa di per sé che il movimento sia in crescita. Al contrario, un movimento può diventare più pericoloso proprio quando perde colpi. Si rende conto di ciò e cerca di reagire a questa perdita di terreno con azioni sempre più impressionanti. In fondo anche l’undici settembre si può spiegare proprio in questa logica, in cui si cerca disperatamente di rimontare un crescente svantaggio politico.

D. Per quanto riguarda la produzione islamica più tradizionale, ovvero propria di quei Paesi che sono maggiormente coinvolti (l’Iran, la Siria, l’Iraq prima della guerra), vede dei segnali di movimento dal punto di vista culturale? Ci sono personaggi interessanti che aprono dibattiti, muovono dubbi o comunque portano avanti una linea evolutiva di pensiero?

R. Sì, assolutamente sì. Siamo poco informati di queste cose per varie ragioni. Ora le dico quali, a mio avviso, sono le principali. In primo luogo, un deficit di conoscenze, anche linguistiche, nei confronti del mondo arabo, del mondo turco, del mondo iraniano, per cui non siamo sufficientemente in grado di seguire la situazione di quei Paesi perché abbiamo dei mass media che non sono tecnicamente all’altezza. Oltre a non essere politicamente interessati a presentarci quelle problematiche, non conoscono abbastanza le lingue, le istituzioni, i meccanismi di quei Paesi. Quindi, rilevo una insufficiente preparazione dei nostri mass media e una insufficiente preparazione della nostra opinione pubblica a imporre una riqualificazione dei mass media. Se ci fosse una spinta dell’opinione pubblica in questo senso, i mezzi di comunicazione sarebbero obbligati, per esempio, a mandare i loro giornalisti ad imparare l’arabo, il turco, il persiano oppure ad assumere persone che conoscono queste lingue, a fare traduzioni dall’arabo, dal turco, dal pharsi, cosa che attualmente non succede quasi per nulla. Tutto questo può darci un’idea di quello che sta succedendo. Il mondo accademico ha maggiori conoscenze, anche se si tratta di relazioni di nicchia che hanno scarso interesse e scarso impatto con l’opinione pubblica. Questo è il lato oggettivo della nostra mancanza di conoscenza. Poi c’è il lato soggettivo, ancora più grave. Il fatto che una parte dei nostri mass media o dei nostri politici preferisca non tenerci a conoscenza degli sviluppi positivi o interessanti di quello che sta accadendo nel mondo musulmano è determinato dall’interesse a lasciare che l’opinione pubblica accetti abbastanza acriticamente l’idea che l’Islam sia globalmente un pericolo. Siccome questa idea dell’Islam come pericolo è stata abbracciata anche in Italia, totalmente o prevalentemente da alcune forze politiche, è chiaro che i giornali e le televisioni che dipendono da queste forze politiche sono abbastanza disinteressati a fare un ragionamento di analisi accurata all’interno dei movimenti islamici, ma preferiscono sottolinearne gli elementi di negatività. Ne è un esempio il caso iraniano. In Iran c’è un grande sviluppo – soprattutto negli ultimi anni – della discussione all’interno della società. Quella iraniana è sempre stata una società colta, in movimento, ma l’idea che prevale nel mondo occidentale, soprattutto in Italia, è quella di una società in cui gli spazi di libertà sono molto limitati. Tutto ciò non è vero. L’Iran è un Paese dove sta prevalendo una sorta di democrazia assembleare piuttosto tumultuosa. Sebbene il Paese sia tenuto a bada dalle istituzioni dei giuristi-teologi – i c.d. “guardiani della rivoluzione” – che occupano una posizione di grande autorevolezza riconosciuta anche istituzionalmente e che sono collegati con le Forze Armate, non si può certo affermare che l’egemonia all’interno del Paese sia nelle loro mani. Secondo la nostra visione, in Iran si muovono delle forze reazionarie e totalitarie cui si contrappone un tentativo di resistenza liberal simboleggiata dal Presidente Khatami. Le cose non stanno affatto così. C’è un braccio di ferro, senza dubbio, fra esperienze di carattere più conservatore, altre di carattere più progressista, ma è una dinamica molto articolata, che soprattutto si esprime con una notevole libertà. Ogni tanto veniamo a sapere che in Iran è stato chiuso un giornale, quindi prendiamo questa notizia come la prova che in Iran non esiste libertà. Così come negli anni ’50 ogni tanto ci dicevano scandalizzati come Peron chiudesse certi giornali. Noi non ci soffermavamo a riflettere sul fatto che se un’Autorità governativa chiude un giornale fa un’azione senza dubbio liberticida, ma all’interno di una società dove questa stampa non allineata esiste ed ha delle possibilità di muoversi. Quanti giornali ha chiuso dal ’33 al ‘45 Adolf Hitler in Germania? Probabilmente qualcuno nei primi mesi, poi non è successo più nulla. Come mai in Iran si continuano a chiudere giornali? Evidentemente non c’è una situazione di libertà liberal-democratica come c’è da noi, però bisogna stare attenti. Noi siamo in un momento di transizione, non voglio far polemiche nei confronti delle scelte del Presidente del Consiglio, certo l’idea che chi offende la figura del Presidente del Consiglio possa essere tratto in giudizio è un segnale, non certo di una involuzione totalitaria, per carità, ma del fatto che anche il nostro concetto di libertà civile sta mutando. L’idea che a Teheran ogni tanto il Consiglio della Rivoluzione faccia chiudere qualche giornale dovrebbe essere relativizzata in Paesi in cui si accetta che succedano certe cose. Il Patriot Act del dicembre del 2001 negli Stati Uniti d’America ha ridotto senza dubbio certi spazi che un cittadino degli Stati Uniti negli anni ’70, ’80 e anche ’90 avrebbe giudicato spazi di libertà irrinunciabili. C’è una dinamica anche all’interno dei regimi liberali, figurarsi degli altri, però personaggi del mondo iraniano, una parte del mondo turco – teoricamente più vicini ai fondamentalisti che non al mondo cosiddetto moderato – possono essere interlocutori molto più interessanti di altri, ad esempio dei principi sauditi, che saranno anche fedelissimi all’Occidente – perché le loro fortune economiche o politiche dipendono dal loro rapporto con le multinazionali americane – però sono interlocutori anche politicamente molto meno interessanti.

D. Sulla nostra Rivista, nel numero venticinque, abbiamo realizzato un’intervista con Magdi Allam, sui temi affrontati nel libro Bin Laden in Italia e poi ripresi anche in vari articoli su la Repubblica. Egli afferma: “Nel caso specifico dell’Islam, si deve tener presente che non è mai esistito nella storia un Islam astratto, decontestualizzato, deistituzionalizzato, depoliticizzato, destatualizzato. Tutti gli Islam sono da sempre al plurale e hanno una loro connotazione particolare a seconda dello Stato, delle istituzioni e del contesto in cui vivono. Ciò vale anche per l’Italia. Se lo Stato italiano si mantiene neutro, sostenendo la propria laicità, lascia la gestione della realtà alle forze che sono interessate ad occuparsene. Queste forze sono oggi, in Italia, i Fratelli Musulmani, le forze jihadiste, ecc.”. Passa, poi, ad un riferimento all’esperienza francese della Consulta delle comunità musulmane. Afferma che le comunità, in Francia, sono molto conflittuali tra loro, che l’azione dello Stato ha portato risultati verso la creazione di un Islam francese, con notevoli passi in avanti anche culturali. Infine fa la proposta, sempre mutuata dell’esperienza francese, della scuola di formazione degli Imam. Lo Stato dovrebbe cioè occuparsi anche della formazione delle guide religiose per fare in modo che le moschee non siano dominate da persone con posizioni radicali, diventando un possibile luogo di reclutamento. Cosa pensa di tali importanti questioni?

R. Nelle linee generali sono d’accordo con Magdi Allam. Non possiamo restare insensibili alla dinamica all’interno dei gruppi musulmani. Bisogna tener presente che i gruppi musulmani non sono organizzati in realtà che abbiano una loro struttura gerarchica. L’Islam non ha chiese e nemmeno una struttura necessariamente visibile e controllabile. Nel mondo musulmano ogni gruppo, ogni comunità, si comporta come vuole. Questo naturalmente è pericoloso in presenza di cellule, nel mondo musulmano ce ne sono molte, che hanno tutto l’interesse a propagandare una visione dell’Islam dura, estremistica, antioccidentale, ecc.. È chiaro che abbiamo tutto l’interesse ad appoggiare quei gruppi, quelle persone e quei movimenti, quegli ambienti che ritengono il dialogo con i non-musulmani come una cosa non solo possibile ma anche auspicabile, importante insomma. Queste forze ci sono. Non vedo perché uno Stato dovrebbe evitare di usare uno strumento che può essere legittimamente suo. Io sono piuttosto contrario alle forme di privatizzazione indiscriminata. Lo Stato che si spoglia delle sue prerogative, dei suoi possessi e che, come va ormai di moda, li lascia ai privati. Non vedo insomma perché uno Stato che dà delle garanzie, quantomeno di servizio pubblico, non dovrebbe occuparsi di certe cose ma le dovrebbe lasciare all’iniziativa privata, delle varie Fondazioni Agnelli di Torino, Cini di Venezia o Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ovvero di altre istituzioni, per carità qualificatissime, ma che hanno le loro caratteristiche e soprattutto non sono controllabili dalla totalità delle persone. Quello che fa lo Stato, invece, é qualche cosa di cui poi deve rispondere nei confronti dei suoi cittadini. Credo quindi che, in linea di massima, Magdi Allam abbia ragione. Non mi spingerei troppo ad allontanarmi dai limiti della disponibilità, diciamo così di servizio, ad aprire un tavolo permanente di trattative. Non mi spingerei troppo neppure sulla linea della costruzione normativa, perchè l’Islam, proprio per la sua prerogativa di non avere delle istituzioni, continuamente verificabili, è soggetto ad ogni sorta di pressione, fonte, senza dubbio, di pericoli. D’altra parte, esiste anche un Islam di Stato in certi Paesi musulmani. In Paesi come l’Egitto, per esempio, i testi della Khutba, che si leggono al venerdì nelle Moschee, passano attraverso la revisione dei ministri del culto. Un Islam Chiesa di Stato, un Islam di Stato, non lo vedrei con favore, perché evidentemente questo può servire a portare avanti nei singoli Paesi la politica di questa o di quella maggioranza. Non vedrei con favore neppure la costituzione di Imam di Stato, come in Francia. Vedo però positivamente tutte quelle iniziative nel mondo occidentale tendenti ad affermare l’Islam come religione universale, con il conseguente radicamento nei singoli Paesi, nelle singole nazioni. Non vedo perché non dovrebbe esserci una specificità nazionale dell’Islam nei vari Paesi europei, dove non esiste una tradizione musulmana, ma dove ci sono ormai delle importanti comunità musulmane che stanno crescendo, composte anche da cittadini che a un certo punto si convertono all’Islam e che hanno tutto il diritto di vedersi rappresentati. Insieme al dovere di comportarsi liberamente nell’ambito delle proprie scelte religiose è necessario ovviamente il rispetto delle leggi dello Stato. L’Islam di Stato non lo vedrei positivamente, ma che lo Stato italiano favorisca la crescita di un Islam italiano, di un Islam che concili la propria identità religiosa con l’appartenenza al mondo, alle tradizioni, alle leggi dello Stato italiano, questo non vedo perché non si dovrebbe fare. È un cammino, naturalmente, che non si può scrivere a tavolino, non lo si può fare a colpi di decreti-legge. Non sono completamente d’accordo neppure con la proposta di un seminario per Imam dell’Islam italiano. Tuttavia un dialogo all’interno delle comunità musulmane che fosse garantito dallo Stato italiano e che portasse, per esempio, ad adottare per l’Islam iniziative simili a quelle attuate nelle comunità ebraiche, lo vedrei bene. Le comunità ebraiche, come alcune comunità cristiane protestanti – perfettamente autonome le une dalle altre – si riuniscono e stabiliscono determinate normative che consentono poi alla comunità nel suo complesso di accordarsi con le leggi e con le consuetudini dello Stato italiano. C’è però una differenza, soprattutto quantitativa, che non deve essere sottovalutata. Le comunità ebraiche in Italia sono molte, ma gli ebrei in tutto sono circa 35.000. I musulmani in Italia ormai hanno largamente superato il milione di persone, di cui molti già cittadini italiani. Bisogna quindi tener presente questo elemento di maggiore difficoltà: gestire 40.000 persone è più facile, forse, che gestirne un milione. Si dovrebbe arrivare a poter avere, come Stato italiano, rapporti analoghi a quelli che abbiamo con le comunità ebraiche anche nei confronti delle comunità musulmane. Evidentemente è più difficile, perché il livello di collaborazione, di compresenza dei musulmani, rispetto agli ebrei in Italia, è molto diverso. Ma sarà bene iniziare a percorrere questo cammino.


(*) Intervista realizzata il 4 giugno 2003.

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